Composta dalle principali dieci economie in via di sviluppo della regione, l’Organizzazione regionale delle nazioni del Sud-Est asiatico ha conosciuto dall’anno della sua formazione nel 1967 un discontinuo processo di integrazione che ha caratterizzato lo sviluppo delle economie dei paesi membri. “Composta” da 580 milioni di persone (circa l’8% della popolazione mondiale), con un volume di scambi commerciali pari al 18% del totale del continente asiatico, essa è posta al centro dell’attenzione degli investitori stranieri e della letteratura economica e giuridica, la quale vi individua un nuovo interessante modello di integrazione commerciale e di sviluppo alternativo al modello cinese, la cui influenza nel continente asiatico è orami preponderante. Specialmente negli ultimi anni a partire dalla crisi economica del 2008, le sfide di questa Organizzazione si sono col tempo accresciute a causa di molteplici fattori sia economici sia politici, tra cui in primis l’espansionismo cinese e il crollo delle esportazioni verso i paesi avanzati. Questi due fattori, sommati ad una migrazione che dagli anni Ottanta si è assestata sul modello Sud-Sud e che ha quindi accresciuto i flussi migratori all’interno dello stesso continente asiatico, hanno costituito una recente fonte di preoccupazione per i paesi membri.
È interessante notare come la recente dichiarazione di Kuala Lumpur del 28 aprile 2015 – votata all’unanimità da parte dei Capi di Stato e di Governo dei paesi membri al termine del 26° Asean Summit in Malesia – non giunge inaspettata, collocandosi anzi in un preciso contesto storico all’interno del processo di integrazione macro-regionale. Il tentativo di rispondere alle sfide e ai problemi evidenziati traspare infatti dal contenuto della dichiarazione che – sebbene rientri all’interno del c.d. soft law, senza dunque avere alcun potere vincolante – vuole mettere un punto fermo sui progressi raggiunti fino al 2014 e incentivare il lavoro attorno ai nuovi targets fissati a partire dal 2015. Tra questi uno dei più importanti appare essere la costituzione della comunità economica comprendente tutti i paesi dell’Organizzazione, traguardo considerato come importante risultato del processo di integrazione economico e politico. Rappresentando infatti tale risultato una priorità da realizzarsi entro il 2015, l’Organizzazione vuole in questo modo seguire il modello di integrazione europeo che, partendo da questioni essenzialmente economiche (come i primi accordi di Parigi del 1951 e di Roma del 1957) si è nel tempo sviluppato giungendo ad una più matura integrazione politica. La comunità economica andrà così a formare la terza comunità all’interno dell’Organizzazione (insieme alle due già realizzate: comunità di politica-sicurezza e socio-culturale). Lo scopo principale della comunità economica è di realizzare un mercato unico – ossia un’unione doganale attraverso la rimozione di barriere fisiche, tecniche e fiscali – al fine di promuovere lo sviluppo e sostenere le economie dei paesi membri dell’Organizzazione. Essa inoltre si propone di instaurare una maggiore cooperazione e consultazione su un’ampia gamma di questioni economiche al fine di poter aumentare il numero di scambi commerciali, di flussi migratori e di sostenere una specializzazione del lavoro più repentina, trasformando così la regione in un’area di libero scambio di merci, servizi, capitali e lavoratori qualificati.
Tutti questi aspetti sono nuovamente richiamati e promossi nella dichiarazione di Kuala Lumpur, da cui possono essere tratte importanti considerazioni che rispondono a diversi ordini di priorità. Essa afferma infatti che centro dell’interesse dell’Organizzazione deve essere la realizzazione del libero mercato e il rispetto dei diritti umani, al fine di giungere ad una più ampia cooperazione ed integrazione sociale, economica e politica in tre diversi campi.
Da un punto di vista economico appare già come il modello adottato dai paesi membri sia considerevolmente diverso rispetto a quello cinese, caratterizzandosi fortemente per la creazione di un’area di libero scambio di beni e servizi e per una forte apertura agli investimenti diretti esteri. In secondo luogo, è incoraggiata l’attività economica tra i paesi membri in termini di flusso di beni, servizi e persone, auspicando una forte flessibilità nella mobilità del lavoro e dei capitali. In questo senso tale processo di integrazione appare alquanto modellato su quello europeo, che non causalmente costituisce il paradigma di riferimento dell’Organizzazione. Particolare riferimento è dato al carattere “umano” della dichiarazione: è richiesto infatti che il processo di integrazione economica sia focalizzato su un modello di sviluppo sostenibile e in grado di apportare benefici all’intera collettività. Tale fattore costituisce una seconda presa di distanza dal modello cinese, la cui bandiera a partire dalle riforme di Deng Xiaoping degli anni Settanta è stata incentrata attorno a specifici targets economici quali l’aumento del prodotto interno lordo e di quello pro capite in specifiche aree del paese. Non solo, ma la dichiarazione auspica anche che lo sviluppo derivante dalla maggiore integrazione possa costantemente tradursi in un miglioramento delle condizioni sociali e del welfare piuttosto che in un settore secondario o terziario sviluppato.
Anche dal punto di vista politico la dichiarazione segue lo stesso paradigma, richiamando principi e modelli adottati nel corso del processo di integrazione economica dei paesi europei e prendendo le distanze dal modello cinese, principale rivale dei paesi membri di questa Organizzazione. Particolare attenzione infatti è data ai diritti dell’uomo, non solo richiamando l’Asean Human Rights Declaration del 2012, ma anche i principi dell’Asean Institute for Peace and Reconciliation costituito dagli stessi paesi membri nel 2013 al fine di appianare e risolvere tutte le tensioni passate tra paesi che, storicamente, si sono spesso visti nemici e alleati. Infine, è indirettamente richiamata l’intenzione di risolvere pacificamente ogni controversia e di non ricorrere all’uso della forza armata, così come è richiamato il trattato di non proliferazione della armi atomiche del 1968, allorquando tutti i paesi confermano l’intenzione di rinunciare all’uso e costruzione dell’arma atomica. È infine anche affermata la volontà di mantenere l’intera regione libera da ogni forma di minaccia militare o di intervento straniero, forse anche anticipando possibili scenari futuri di ulteriori accordi di natura prettamente militare.
Ma è soprattutto dal punto di vista socio-culturale che la dichiarazione in analisi fa apparire le sue principali caratteristiche. Quasi a riassumere i concetti delineati in campo economico e politico, la dichiarazione fissa un breve elenco di obiettivi da raggiungere entro pochi anni e attorno ai quali lo sforzo dei paesi membri deve essere più che considerevole. Anche in questo caso non si può non considerare molteplici similitudini con la Doha Declaration, da una parte, e con i Millennium Development Goals, dall’altra. Particolare enfasi è data infatti alla riduzione della povertà, ad un innalzamento delle condizioni di vita, ad un più alto livello di istruzione, tutti obiettivi da realizzare attraverso una maggiore cooperazione economica e politica. Sono infatti richiamati i doveri di assistenza in caso di emergenza climatica o umanitaria, di fronte alle quale ogni paese è tenuto a prestare la propria collaborazione
La dichiarazione di Kuala Lumpur sembra dunque voler confermare l’intenzione dei principali paesi del Sud-Est asiatico di voler rispondere alle crescenti sfide sul piano internazionale, nonché dimostra come quello delle organizzazioni regionali sia sempre più un fenomeno di risposta ai numerosi deficit della comunità internazionale. Laddove essa infatti non sembra poter adeguatamente rispondere alle necessità degli Stati, essi trovano più rapido ed efficace potervi dare risposta attraverso delle organizzazioni regionali ad hoc più vicine alle loro esigenze e più adeguate a trovare più rapide soluzioni. Tale decentramento a discapito delle organizzazioni internazionali è stato recentemente preso in considerazione da parte della letteratura economico-giuridica come un fenomeno di portata globale che tuttavia può risultare utile all’integrazione di particolari regioni economicamente meno sviluppate. Del resto, l’ampio numero di organizzazioni regionali dimostra come gli ultimi risultati registrati in termini di sviluppo ed integrazione vadano nella giusta direzione contribuendo a colmare deficit strutturali che molteplici fattori politici ed economici hanno inevitabilmente contribuito a produrre nel corso degli ultimi decenni, segnando un lento declino dell’assetto istituzionale internazionale sorto nel secondo dopoguerra. In specifico riferimento al Sud-Est asiatico, l’Organizzazione in analisi ha avuto modo di costituire un fattore di promozione dello sviluppo (in termini di investimenti diretti esteri e aumento del prodotto interno pro capite), di integrazione (in termini di crescenti flussi migratori) e di sicurezza che hanno permesso ai paesi membri di superare con discreto successo la crisi del Sud-Est asiatico degli anni Novanta e la recente crisi economica del 2008. La dichiarazione di Kuala Lumpur, pur non apportando novità significative ma limitandosi ad ampliare il contenuto di decisioni già adottate in passato, dimostra nuovamente come i paesi membri di questa Organizzazione condividano esigenze simili alle altre organizzazioni regionali dal punto di vista economico e politico, rispondendo in taluni casi anche con soluzioni che appaiono per lo più analoghe a quelle già adottate all’interno della comunità internazionale.